Senza marito, la solitudine delle madri single afghane, fantasmi di una società maschilista

Senza marito, la solitudine delle madri single afghane, fantasmi di una società maschilista
kiana hayeri
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Ombre, spettri invisibili in una società che le riconosce solo come compagne di uomini.

La vita delle donne single afghane, delle vedove, delle madri che hanno perso il marito e si trovano a occuparsi dei figli da sole, delle divorziate, trascorre in un silenzio agghiacciante che, paradossalmente, urla loro contro tutta l’indifferenza di un mondo ancora saldamente aggrappato al patriarcato, dove la donne “esiste” solo in funzione del ruolo di moglie, di compagna, e quando questo cessa, contemporaneamente sembrano cessare tutti i suoi diritti di essere umano.

Continuano con la loro vita, certo, ma lo devono fare completamente da sole, nel distacco generale verso quelle che sono le loro necessità, i loro problemi, verso qualsiasi richiesta d’aiuto. Sono come fantasmi che hanno perso, per scelta o per disgrazia, il proprio “status” di cittadine e di membri della comunità.

Perché, come recita un vecchio detto Afgano, “Una donna entra nella casa del marito in abito bianco, e solo in abito bianco uscirà“; il riferimento al lenzuolo bianco in cui vengono adagiati i defunti è un chiaro segnale di ciò che la società pensa di una donna che si lega in matrimonio a un uomo, il suo unico destino possibile è quello.

Tanto che, sia nella lingua pashtu che in quella dari, le due lingue ufficiali dell’Afghanistan, non esiste neppure una parola, o un’espressione, per chiamare le madri single.

Eppure, la guerra, secondo i dati raccolti dall’Onu, ha fatto circa due milioni di vedove, a cui si aggiungono le donne che volontariamente hanno scelto di allontanarsi dal marito, magari con un divorzio, oppure con la fuga da un matrimonio violento e, spesso, combinato.

A queste donne ha dato un volto, e una voce, la fotografa freelance iraniana-canadese Kiana Hayeri, che con il suo reportage, Single Mothers of Afghanistan, ha vinto il Grand Prix dell’International Academic Forum, ente fondato a Nagoya, in Giappone, nel 2009, proprio per promuovere lo scambio interculturale e mettere a fuoco alcune delle più importanti questioni di attualità a livello mondiale.

Nelle immagini scattate da Kiana fra Kabul, Herat, e Tapaye Zanabad, un villaggio fondato su una collina della capitale del paese e abitato da sole vedove, si scoprono donne ancora giovanissime che, nonostante l’ostracismo della società, rivendicano indipendenza e desiderio di riscatto, vedove più anziane diventate vere e proprie matriarche delle loro famiglie, bambini curiosi che girano tra le rovine dei quartieri distrutti dagli attentati.

Ho avuto accesso al loro mondo più profondo e segreto – ha detto Kiana, che ha pubblicato il reportage integrale anche sul proprio sito ufficiale –  sono entrata nelle loro case, nelle prigioni femminili dove vivono con i loro bambini.

Proprio quest’anno, a Kabul è nato un movimento sociale, Where is my name, con cui le donne chiedono agli uomini di chiamarle con il loro nome proprio e di smetterla di qualificarle con espressioni offensive come “la moglie di”, “la mia domestica”, o persino “la mia capra”.

Queste donne vogliono cessare di essere fantasmi, e di esistere, anche senza un uomo al loro fianco. Per i loro figli, ma anche e soprattutto per se stesse.