Vittime della vendetta, della furia cieca che annienta ogni razionalità e spazza via qualsiasi sentimento di amore, di compassione o pietà in ragione di una rabbia che trova sfogo nel peggiore dei crimini, quello che toglie la vita a un innocente.
Sono tante, troppe le storie di violenza e di femminicidio che la cronaca italiana ci racconta, e l’aspetto ancor più drammatico della lunga scia di sangue che imbratta quasi quotidianamente il nostro bel paese è che a pagare, spesso, non sono “solo” mogli, compagne, fidanzate, le prime “colpevoli” della sofferenza di questi tanti uomini incapaci di accettare un rifiuto, un abbandono, aggrappati in maniera tenace all’idea che una relazione si basi sul possesso e non sull’amore. Perché a diventare vittime della follia, del desiderio di fare del male, indirettamente, a chi – nella mente di questi uomini – ne ha procurato a loro, con un addio o un divorzio, troppo spesso sono i figli: bambini, ragazzi, martiri di un macabro gioco vendicativo che distrugge ogni parvenza di umanità, spezzando tutte le vite che vi sono coinvolte.
Ma c’è un altro, scioccante rovescio della medaglia che unisce in un lungo filo rosso sangue tante vittime di mariti, fidanzati, padri: Nicolina, Noemi, sono solo le più recenti vite spezzate, nonostante pendesse una denuncia nei confronti degli uomini che poi le hanno uccise.
È così: moltissime donne sono morte, o hanno visto i propri figli morire, nonostante avessero denunciato alle autorità la violenza, le minacce, nonostante avessero raccontato la propria esperienza di terrore, avessero mostrato i lividi, le ferite. E allora la domanda che sorge spontanea è: poteva essere fatto di più? Con altri provvedimenti Nicolina, Noemi e tutte le altre (e gli altri) si sarebbero potuto salvare?
Non siamo qui per fare il gioco dei “se”, per quello, purtroppo, ormai non c’è più tempo; e non siamo qui neppure per fare un attacco allo Stato, le cui forze dell’ordine cercano di tutelare, come meglio possono e con i mezzi di cui dispongono, chiunque denunci di essere vittima di violenza. Ma il problema è reale, palpabile, e non ci si può nascondere dietro un dito pensando di parlare, ogni, volta, di una serie di “sfortunate e incredibili coincidenze”. Chi ha parlato della morte di Nicolina come di “una concatenazione di eventi non prevedibili” sbaglia, perché le denunce esistevano, numerose, così come le richieste di aiuto della madre della ragazzina, che chiedeva ai servizi sociali di proteggere sua figlia, di allontanarla, di metterla al sicuro dall’uomo che l’aveva minacciata più volte di compiere una rappresaglia colpendo proprio l’adolescente.
La realtà, brutale, drammatica, ma assolutamente vera è che le misure restrittive non sono sufficienti: sono provvedimenti blandi, che mantengono le cose in uno stato di apparente tranquillità, ma non possono assolutamente bastare ad assicurare il ritorno a una vita serena per chi denuncia, a garantire l’incolumità per sé e per i propri figli. Perché se uno è disposto a uccidere, non è certo una cautela di quel genere a fermarlo, non è il divieto ad avvicinarsi o a chiamare a dissuaderlo dai suoi intenti. Serve di più, molto di più, come dimostrano queste storie che parlano di denunce cadute nel vuoto, di appelli rimasti inascoltati, di timori rivelati ma presi in considerazione sì e no.
Perché, se per Noemi, Nicolina e tutti gli altri è tardi, purtroppo ci sono altre donne, altri bambini, altri figli che rischiano di essere uccisi dall’ignavia e dall’indifferenza.
Nicolina Pacini, 15 anni
Sapevo che aveva una pistola e l’ho anche detto ai carabinieri quando ho presentato le denunce perché mi minacciava: ho ancora i messaggi conservati sul telefono. Era un violento, sapevo che c’era pericolo per i miei figli.
Donatella Drago, mamma di Nicolina, aveva già denunciato l’ex compagno Antonio Di Paola; c’è di più, alcuni giornali, fra cui il Corriere del Mezzogiorno, hanno riportato la richiesta fatta dalla donna all’assistente sociale di Ischitella, dove la ragazzina viveva presso i nonni materni dopo che lei si era trasferita a Viareggio per lavoro, di allontanarla dall’abitazione, proprio perché temeva che Di Paola potesse farle del male, viste le precedenti minacce. Ma alla sua richiesta si sarebbe sentita rispondere con un generico “sta bene dove sta”.
Volevo che i miei figli fossero trasferiti altrove, fuori dal paese. Ma l’assistente sociale mi diceva sempre che non c’era posto più sicuro di casa dei nonni: si è visto com’è andata a finire.
Nicolina è stata ferita al volto da un colpo di pistola sparato da Di Paola, poi morto suicida, il 20 settembre 2017, ed è morta all’ospedale di Foggia il mattino seguente.
Federico Barakat, 8 anni
Erano le 16.30 del 25 febbraio del 2009 ed era in corso una visita protetta. Il padre Mohamed aggredì Federico sparandogli e colpendolo con venti coltellate, prima di togliersi la vita. Il bambino morì 57 minuti dopo l’aggressione, e per la sua morte vennero rinviati a giudizio Elisabetta Termini, dirigente del servizio sociale, Nadia Chiappa, assistente sociale e Stefano Panzeri, un educatore.
Antonella Penati, la mamma del piccolo, aveva chiesto più volte che le visite fossero sospese, e lo stesso giorno della morte del figlio aveva ripetuto l’ennesimo appello all’assessore ai servizi sociali, Marco Zampieri. La pericolosità del padre di Federico non era sconosciuta alle autorità, aveva condanne per stalking e minacce, e un processo pendente che si sarebbe celebrato alla fine di marzo del 2009. All’epoca dei fatti Antonella aveva perso l’affidamento del figlio, che era stato posto sotto la tutela del Comune di San Donato, ma aveva chiesto aiuto alle istituzioni, protezione per sé e per il bambino. Era stata giudicata una madre “iperprotettiva e isterica”.
Il 28 gennaio 2015 la Corte di Cassazione ha assolto tutti gli imputati per la morte di Federico.
Ion Talpis, 19 anni
Elisaveta sognava di poter vivere una vita felice a Udine, dove si era trasferita con il marito Andrei Talpis dalla Moldavia. Era riuscita persino a riunire la famiglia, facendo arrivare i figli Ion e Cristina, di 21 anni, che poi era tornata in patria per studiare all’università. Proprio per amore loro aveva rinnegato la denuncia, sporta qualche mese prima dell’arrivo dei due ragazzi in Italia, nell’agosto 2013, nei confronti del marito, un uomo violento che l’aveva picchiata più volte. Anche i vicini dei Talpis raccontano di liti violente e furibonde che erano all’ordine del giorno. Elisaveta aveva riaccolto in casa il marito, e lui, nella mattina del 26 novembre 2013, ha ucciso Ion, che tentava di proteggere la madre dall’ennesima aggressione. Andrei ha ferito anche lei all’addome, ma la donna è riuscita a scappare e a cercare aiuto.
Nel marzo 2017 la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per aver discriminato Elisaveta perché,
… non agendo prontamente in seguito a una denuncia di violenza domestica fatta dalla donna, le autorità italiane hanno privato la denuncia di qualsiasi effetto creando una situazione di impunità.
Andrea e Davide Iacovone, 9 e 13 anni
Erica Patti, mamma dei due fratellini bresciani, aveva chiesto al tribunale dei minori un sostegno psicologico, e la limitazione della potestà dell’ex marito, che nell’ottobre del 2013 avrebbe dovuto comparire in aula per un processo che lo vedeva accusato di stalking verso la madre dei suoi figli. Processo che non è mai stato celebrato.
La donna ha raccontato più di una volta che le sue denunce, una dozzina, erano rimaste lì, inascoltate, ma che l’ex marito Pasquale minacciava di colpirla proprio attraverso i figli:
“L’unico modo per farti del male è fare del male ai tuoi figli. Adesso me li porto via 15 giorni al mare. E non li vedrai più. Li ammazzo”, scrive Pasquale in un messaggio nel giugno del 2012, Oppure Erica cita al Corriere altre frasi, come “Me la prenderò con i tuoi figli, te la farò pagare”, o l’avvertimento del gennaio 2013: Se ti rivolgi ai carabinieri, ricordati che hai dei figli”.
Andrea e Davide sono stati ritrovati, il 16 luglio del 2013, carbonizzati sul letto nell’appartamento del padre.
Carmela Petrucci, 17 anni
Lucia Petrucci diceva di avere paura di Samuele Caruso, il ventitreenne con cui aveva avuto una breve relazione, poi finita. Anche se non risultano denunce, diceva spesso che lui la perseguitava, che la chiamava continuamente, e così è accaduto anche la mattina del 19 ottobre 2012, quando il ragazzo ha inseguito la diciottenne Lucia e la sorella Carmela, più piccola di un anno, nell’androne del palazzo dove la famiglia Petrucci abitava, all’Uditore, piena periferia ovest di Palermo.
Carmela si è frapposta fra l’aggressore e la sorella per difenderla, ed è stata raggiunta da un fendente che l’ha uccisa.
Le compagne che avevano denunciato: Noemi Durini, 16 anni
La mamma di Noemi aveva denunciato alla procura dei Minori Lucio Marzo, il diciassettenne che era fidanzato con la figlia, per averla picchiata. Il ragazzo, inoltre, per stessa ammissione di Leonardo Leone De Castris, procuratore capo di Lecce, era già in cura al Sert per uso di droghe leggere, aveva subito tre trattamenti sanitari obbligatori in un anno e aveva qualche guaio con la giustizia. Il nonno di Noemi, uccisa il 3 settembre a Specchia, forse perché voleva lasciare Marzo, ha detto “Bisognava intervenire prima“.
La mamma temeva per la sorte di Noemi, che frequentava il giovane da un anno, e chiedeva ai magistrati di intervenire per allontanarlo. Ne erano nati due procedimenti: uno penale per violenza privata, l’altro, civile, per verificare il contesto familiare in cui viveva il giovane, al fine di capire se fossero in atto azioni o provvedimenti per porre fine alla sua indole violenta. Il cugino di Noemi racconta che la ragazza era andata in caserma con i genitori per denunciare le violenze, ma non è stato fatto nulla. Nessun provvedimento cautelare è stato preso nei confronti del ragazzo, e i procedimenti sono stati attualizzati dalla Procura per i minorenni solo dopo la denuncia di scomparsa di Noemi.
Marianna Manduca, 32 anni
Dodici denunce sporte nei confronti del marito per violenze, soprusi, minacce non erano servite a placare la furia di Saverio Nolfo, che la sera del 3 ottobre 2007 ha posto fine alla vita dell’ex moglie Marianna. Anche dopo la separazione, lui aveva continuato con vessazioni e botte, nonostante avesse ottenuto anche l’affidamento dei tre figli.
Nell’aprile del 2016 è cominciato il processo per la responsabilità civile dei magistrati che si occuparono del delitto di Marianna Manduca, conclusosi con la loro condanna, per via della “negligenza inescusabile” nei confronti di Marianna e dei figli, che avevano chiesto alla Procura di fermare l’uomo.
Letizia Primiterra e Laura Marfisi, 47 e 33 anni
Letizia aveva chiesto la separazione dal marito, Francesco Marfisi, che secondo quanto riportato dal quotidiano Il Centro aveva precedenti per violenza sessuale, rapina e reati contro il patrimonio, e si era rifugiata a casa di un’amica. Solo una denuncia fatta da Letizia, ma i segnali del potenziale pericolo c’erano, e ben evidenti: c’erano le minacce col coltello, la violenza, le armi ritrovate in casa di Marfisi. Letizia si era anche rivolta allo Sportello non sei Sola, del comune di Ortona.
Insieme a lei, Marfisi ha ucciso anche l’amica Laura Pezzella, con 50 coltellate inferte davanti ai figli di lei, di 5 e 6 anni. Prima, aveva ferito alla testa anche la figlia di Letizia, incinta al quinto mese.
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