Federico, Noemi, Nicolina e le altre vittime che potevano essere salvate

Federico, Noemi, Nicolina e le altre vittime che potevano essere salvate
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Vittime della vendetta, della furia cieca che annienta ogni razionalità e spazza via qualsiasi sentimento di amore, di compassione o pietà in ragione di una rabbia che trova sfogo nel peggiore dei crimini, quello che toglie la vita a un innocente.

Sono tante, troppe le storie di violenza e di femminicidio che la cronaca italiana ci racconta, e l’aspetto ancor più drammatico della lunga scia di sangue che imbratta quasi quotidianamente il nostro bel paese è che a pagare, spesso, non sono “solo” mogli, compagne, fidanzate, le prime “colpevoli” della sofferenza di questi tanti uomini incapaci di accettare un rifiuto, un abbandono, aggrappati in maniera tenace all’idea che una relazione si basi sul possesso e non sull’amore. Perché a diventare vittime della follia, del desiderio di fare del male, indirettamente, a chi – nella mente di questi uomini – ne ha procurato a loro, con un addio o un divorzio, troppo spesso sono i figli: bambini, ragazzi,  martiri di un macabro gioco vendicativo che distrugge ogni parvenza di umanità, spezzando tutte le vite che vi sono coinvolte.

Ma c’è un altro, scioccante rovescio della medaglia che unisce in un lungo filo rosso sangue tante vittime di mariti, fidanzati, padri: Nicolina, Noemi, sono solo le più recenti vite spezzate, nonostante pendesse una denuncia nei confronti degli uomini che poi le hanno uccise.

È così: moltissime donne sono morte, o hanno visto i propri figli morire, nonostante avessero denunciato alle autorità la violenza, le minacce, nonostante avessero raccontato la propria esperienza di terrore, avessero mostrato i lividi, le ferite. E allora la domanda che sorge spontanea è: poteva essere fatto di più? Con altri provvedimenti Nicolina, Noemi e tutte le altre (e gli altri) si sarebbero potuto salvare?

Non siamo qui per fare il gioco dei “se”, per quello, purtroppo, ormai non c’è più tempo; e non siamo qui neppure per fare un attacco allo Stato, le cui forze dell’ordine cercano di tutelare, come meglio possono e con i mezzi di cui dispongono, chiunque denunci di essere vittima di violenza. Ma il problema è reale, palpabile, e non ci si può nascondere dietro un dito pensando di parlare, ogni, volta, di una serie di “sfortunate e incredibili coincidenze”. Chi ha parlato della morte di Nicolina come di “una concatenazione di eventi non prevedibili” sbaglia, perché le denunce esistevano, numerose, così come le richieste di aiuto della madre della ragazzina, che chiedeva ai servizi sociali di proteggere sua figlia, di allontanarla, di metterla al sicuro dall’uomo che l’aveva minacciata più volte di compiere una rappresaglia colpendo proprio l’adolescente.

La realtà, brutale, drammatica, ma assolutamente vera è che le misure restrittive non sono sufficienti: sono provvedimenti blandi, che mantengono le cose in uno stato di apparente tranquillità, ma non possono assolutamente bastare ad assicurare il ritorno a una vita serena per chi denuncia, a garantire l’incolumità per sé e per i propri figli. Perché se uno è disposto a uccidere, non è certo una cautela di quel genere a fermarlo, non è il divieto ad avvicinarsi o a chiamare a dissuaderlo dai suoi intenti. Serve di più, molto di più, come dimostrano queste storie che parlano di denunce cadute nel vuoto, di appelli rimasti inascoltati, di timori rivelati ma presi in considerazione sì e no.

Perché, se per Noemi, Nicolina e tutti gli altri è tardi, purtroppo ci sono altre donne, altri bambini, altri figli che rischiano di essere uccisi dall’ignavia e dall’indifferenza.