Una cicatrice per raccontarsi, per parlare di sé, più di quanto potrebbero fare le parole.
Le donne immortalate dal fotografo Daniele Deriu nel progetto “Scars of life” sono, come lui stesso le definisce (e come dargli torto?), “guerriere” moderne: giovani madri, compagne, figlie o sorelle, ciascuna con un proprio vissuto, percorsi tutti diversi disseminati, però, dagli stessi, dolorosi ostacoli, che più di una volta devono essere sembrati loro insormontabili, ma di cui adesso hanno scelto di mostrare i segni indelebili; con coraggio, con l’orgogliosa sfrontatezza di chi vuole gridare al mondo “Ce l’ho fatta”, queste donne normali, comuni, vincitrici, hanno accettato di mostrare le proprie cicatrici, testimoni di quel passato sofferto da cui sono riuscite a uscire, ma anche di un futuro tutto da vivere.
Proprio le cicatrici, nella visione dell’artista cagliaritano, rimandano alla pratica giapponese del “Kintsugi” (letteralmente riparare con l’oro), per cui le crepe di un vaso rotto, piuttosto che essere nascoste, vengono riempite con l’oro, cosicché l’oggetto risulti ancor più bello e prezioso. Nel caso delle donne di Daniele Deriu l’oro è la loro stessa determinazione, il desiderio fortissimo, pulsante, di vivere, di farcela… di uscirne. Ciascuna di loro ha accettato, senza imbarazzi, senza insensate vergogne, di posare davanti a un obiettivo con la propria cicatrice, simbolo di un dramma personale vissuto e superato: un tumore, delle menomazioni fisiche, abusi subiti o persino auto inflitti.
Del resto, la frase che presenta la gallery fotografica nel sito ufficiale del fotografo, illogico.it, è proprio il famoso aforisma di Kahil Gibran
Le anime più forti sono quelle temprate dalla sofferenza. I caratteri più solidi sono cosparsi di cicatrici
Proprio perché Daniele ha voluto, tramite il suo progetto, trasmettere un messaggio ben preciso, che non è, tuttavia, quello più banale che ci si potrebbe facilmente immaginare. Ce lo ha voluto spiegare direttamente lui, in questa intervista in cui abbiamo voluto sapere di più di “Scars of life“.
Intanto tengo a precisare subito che non intendo mandare messaggi ‘consolatori’, al contrario. Le donne, le ‘guerriere’ di questo progetto non sono belle ‘nonostante’ i segni ben visibili sulla loro carne… ma per vie traverse, lo sono proprio grazie a queste ‘imperfezioni’.
Insomma proprio come per il Kintsugi questo progetto parte dall’idea che dall’imperfezione di una ferita possa nascere una forma ancora “più alta” di bellezza, esteriore e interiore.
Si, non ci si limita a ‘riparare’, ma si evidenziano le crepe, le fratture… le impreziosiscono aggiungendo valore all’oggetto. Questo, in due parole, è il senso di ‘Scars of life’: l’oro, simbolicamente presente anche per via della mia ‘firma cromatica’, è il coraggio, la voglia di riscatto, il fatto di non aver mai mollato. L’oro impreziosisce le storie sulla pelle, le rende belle… le rende uniche.
Il progetto nasce inizialmente nel 2012. Cosa le ha suggerito lo spunto per creare la serie “Scars of life”?
Forse è nato per caso, come tanti altri… ma credo sia stata la parola ‘vergogna’ ad accendere il ‘relè’ della mia riflessione. Era l’estate del 2011 e mi trovavo in spiaggia, osservavo un gruppo di amiche in circolo. Una in particolare attirava la mia attenzione: era difficile non notarla perché era l’unica di tutta la spiaggia a indossare un pareo rosso. Seppi solo più tardi che quella ragazza soffriva di endometriosi e si vergognava delle sue cicatrici. Pensava che doveva esserci qualcosa di sbagliato nella società se qualcuno si sentiva in dovere di nascondere le sue cicatrici, le ferite delle sue battaglie personali. Quella stessa ragazza, un anno dopo, fu la prima modella del mio progetto.
Dopo una prima fase, però, lei ha deciso di accantonare il progetto, per ben due anni, e “Scars of life” venne assorbito quasi completamente dalla mostra londinese “Dystopia”. Cosa l’ha indotta ad accantonarlo e successivamente l’ha spinta a riprenderlo?
Non amo definire ciò che faccio ‘fotografia sociale’, ma di certo ha molto a che fare con l’empatia. Ammetto che a un certo punto del progetto mi sono sentito un po’ ‘inadeguato’ a raccontare le storie di queste donne magnifiche. Ho temuto di non riuscire a trasmettere in uno scatto la sintesi della loro incredibile forza emotiva e morale… di non riuscire a mostrarne appieno la bellezza. Poi, molto semplicemente, mi sono detto che non potevo essere proprio io quello che non mostrava abbastanza coraggio in questo progetto.
Il risultato è una splendida gallery di 26 donne, il cui messaggio arriva forte e chiaro, come Daniele stesso dice: dall’inferno si può tornare.
Vigilant- Nina, leucemia
La mia malattia viene gestita tramite quella che viene chiamata “vigile attesa”. Tieni gli occhi aperti e speri per il meglio, insomma. Mi va bene così, sono abituata a combattere. Ho iniziato presto difendendo il mio fratellino e da allora non ho mai smesso. Questa è soltanto un altro genere di lotta. E allora aspetto… che mi ricrescano i capelli dopo l’ultimo ciclo di chemio, per iniziare. Poi mi pettinerò con cura, metterò lo smalto rosso sulle unghie e aspetterò la prossima battaglia.
Touch- Eloée, violenza domestica
L’uomo che diceva di amarmi mi ha rotto il naso due volte, spezzato una clavicola e incrinato non so più quante volte le costole. In casi estremi, gli piaceva punirmi usando l’accendino dell’auto, come quella volta che lo avevo fatto aspettare troppo davanti al centro commerciale. L’uomo che diceva di amarmi mi urlava anche contro che ero una donna insulsa, brutta, inetta e stupida. Lo ha ripetuto talmente tante volte negli anni che ho finito per crederci. Una notte d’estate qualsiasi, uguale a tante altre, scappai via d’impulso con una piccola borsa e soltanto 12 euro in tasca. Una amica, una sorella, mi aiutò per i primi tempi… poi una associazione di volontari fece il resto. Le bruciature e i lividi ora si notano appena. Penso alla donna che subiva quelle violenze… la stessa che ancora oggi si sveglia tremante in piena notte. Cerco di raggiungerla, di toccarle le mani e dirle che tutto andrà bene, che forse non è così stupida come lui credeva… che un domani migliore è possibile.
theFly- Francine, mastectomia
Esiste per tutti un momento di “definizione”. Ognuno ha il suo. Il mio non è stato quando il medico ha confermato la diagnosi… e non è stato nemmeno la prima volta che mi sono guardata allo specchio dopo la mastectomia e nemmeno mentre il mio Essere cercava disperatamente di aggrapparsi a ogni brandello di coraggio, dopo un ciclo di chemio. Il mio momento di definizione è arrivato quando ho ripreso a danzare. Mentre mi muovevo avevo la chiara percezione che non ci fosse niente che non andasse in me… ero debole e indossavo una parrucca, ma l’armonia con il tutto aveva ripreso il suo percorso ed io avevo superato l’ostacolo. Il mio momento di definizione è stato quando la mia anima si è librata danzando oltre l’ombra oscura.
Strong personality- Sarah, endometriosi quarto stadio
C’è un momento, prima che a qualcuno venga in mente di dare un nome ai tuoi dolori, in cui ti trattano quasi da malata immaginaria. Non importa quanto ti vogliono bene. Lo fanno quasi tutti. Per qualche ragione il dolore, quello delle donne in particolare, viene sempre sottovalutato, come se facesse parte della nostra natura. Ora vi dico qualcosa sulla natura delle donne. A volte ci guardiamo allo specchio e paragoniamo il nostro povero corpo pieno di cicatrici ad un vestito sgualcito e rattoppato. Ma noi sappiamo che c’è soltanto un modo per indossare un vestito così “inadeguato”… ed è con carattere.
Soul cut- Céline, sindrome da autolesionismo ripetuto
La calma. Per molti raggiungerla è facile. Ad alcuni, per esempio, basta ascoltare un po’ di musica. Io mi devo tagliare. Quando il mondo diventa opprimente, insostenibile, allora mi taglio. Tutto il mio essere si focalizza sul dolore e la ferita facendo sparire il resto. Poi disinfetto con cura, sentendo di avere finalmente il controllo. Ma naturalmente non è vero. Non esiste il controllo. E’ la nostra anima che tagliamo, tutte le volte. Se ci tendiamo all’ascolto, possiamo sentirla gridare. Io ci sto provando a smettere. Incrocio le gambe, chiudo gli occhi e cerco la mia anima silenziosa.
The smile- Masha, tumore della tiroide
Ho diverse cicatrici, ma la mia preferita è questa. Arriva da una operazione complicata dove ci stavo lasciando le penne. Adesso si nota appena, ma l’adoro. Vedete, io sono una di quelle persone che sorride raramente. Più per timidezza, che altro. Mi irrigidisco e non mi viene proprio da piegare le labbra. Ma adesso, a tutti quelli che mi chiedono della cicatrice, dico che è la mia anima che cerca di sorridere.
Seven days- Anna, sindrome da autolesionismo ripetuto
Le lesioni che mi infliggevo avevano il potere di calmarmi, di rendermi quieta. Segnavo delle strisce sul braccio come un prigioniero segna il tempo che passa sulla parete della cella. Sette. Uno per ogni giorno della settimana. Per ogni segno potevo lavorarci ore. Ogni lunedì riprendevo daccapo e i segni diventavano solchi. Poi ho trovato il coraggio di parlarne con qualcuno, di farmi aiutare… ed è stato allora che ho iniziato a battermi. Adesso mi voglio bene e non permetto a nessuno di farmi del male, nemmeno a me.
Ordinary's hero life- Isa, endometriosi quarto stadio
Si è soli nel dolore? Questo è quello che conta davvero sapere. Quando soffriamo, abbiamo un numero da chiamare o c’è un tweet, un amico, un parente, un cane, qualcuno? Magari Dio? C’è una qualche risposta al dolore, oppure lo si deve affrontare da soli? Non è forse vero che spesso la comprensione dell’Altro ci appare quasi aliena? Perché, se le cose stanno davvero così, se tutto quello che abbiamo quando si giunge al “punto” siamo noi stessi… beh, allora lasciate che vi dica una cosa: è meglio che basti. Affrontatelo, combattetelo e poi usatelo per aiutare qualcuno. Voi sarete quelli da chiamare. Voi sarete quelli che comprendono.
NoN- Alisha, morbo di Crohn
Dico davvero. Non avete messo a dura prova il vostro senso dell’umorismo fino a quando non vi capita un “incidente” con il vostro sacchetto da stomia in un locale pieno di gente. Non so se avete presente… è come uno di quei sacchetti che stanno dentro gli aspirapolvere, soltanto che il mio non raccoglie polvere, se mi spiego. La faccio e la raccolgo. Mi sento profondamente civile, in questo momento. E no, nel caso non si fosse ancora capito, non permetterò a questa cosa di togliermi il sorriso o di farmi sentire meno donna.
nofear- Floriane, fibrosi cistica
Paura. Perdere completamente il senso della routine e vivere ogni giorno con la paura. Paura del dolore, paura dei risultati delle analisi, paura della tosse che fa allontanare tutti, anche se non è contagiosa. Paura di non superare i quarant’anni. Paura di mangiare un gelato. Paura degli sguardi compassionevoli. Paura di non essere più desiderata. Paura di quell’attimo terribile che precede l’ingresso in sala operatoria. Si può smettere da un giorno all’altro di avere paura? Forse no, ma penso che ci proverò. A partire da oggi.
La renaissance- E. L. malattia di Paget
All’inizio ero convinta che il simbolo della mia femminilità mi fosse stato strappato via dal petto… ora esibisco quella cicatrice con orgoglio, come simbolo della nascita di una donna migliore, più forte.
La resa- Isabelle, tentativo di suicidio
La mia lettera d’addio iniziava con queste tre parole: “Mi sono arresa”. Anoressia, nevrosi, paranoie, senso perenne d’inadeguatezza. Ero stanca, sfinita. Dopo il taglio, ricordo di essere rimasta a guardare affascinata il mio sangue che scompariva dentro lo scarico del lavello. Il contrasto del rosso sul bianco. La scena di un film stravisto, ma era il mio film. Poi più niente. Il medico disse ai miei che il rischio maggiore lo avevo corso cozzando violentemente la testa proprio contro il bordo del lavello mentre perdevo i sensi. Imbranata. Adesso non lo rifarei. Se una lezione si può ricavare, è questa: mai cedere ai momenti di disperazione… se le dai abbastanza tempo, la vita prevale. Ed io mi sono arresa, alla vita.
I'm fine- Giorgia, endometriosi quarto stadio
La gente mi chiede in continuazione “Come stai?” Ho 32 anni ed ho già subito due laparotomie e c’è una laparoscopia in preparazione per la fine dell’anno. Ho perso la possibilità di diventare mamma e i farmaci che prendo mi fanno venire le vampate. Convivo con il dolore, ma ho tanti giorni buoni e sono anche follemente innamorata del mio compagno. Lui trova le mie cicatrici sexy. Forse lo dice soltanto per farmi stare meglio con me stessa… ma la cosa strana è che funziona. Sapete una cosa? Io sto bene.
Heart poem- Valérie, trapianto di cuore
Penso di essere sempre stata un po’ egoista, di aver messo me stessa e i miei problemi davanti a tutto il resto. Durante il lungo periodo della lista, quando aspettavo ogni giorno la chiamata che mi avrebbe portato in sala operatoria, il mio carattere è peggiorato. Ero scontrosa, brusca, odiosa e irrispettosa. La cardiomiopatia che mi aveva accompagnato fin dalla nascita era finalmente giunta in fase terminale e forse non lo accettavo. Poi uno sconosciuto della mia stessa età mi ha donato il suo tempo ed è stato come rinascere. Ora, quando sono irrequieta, ascolto quel battere regolare, forte, entro in sintonia con la parte della sua anima che vive in me… nello spazio di tempo tra un battito e l’altro, e insieme troviamo pace. D’ora in poi, sarò una persona di buon cuore.
Falena- Renée, violenza domestica
Ho sempre cercato l’amore come una falena cerca la luce… orientavo la mia anima verso i raggi lunari. E come una falena restavo disorientata quando mi bruciavo. Mi confondevo. Così tutte le volte che lui mi colpiva restavo sconvolta. “Non sta succedendo davvero”, mi ripetevo. Ci sono voluti otto anni perché il mio spirito si ribellasse a questo torpore allucinato. Sono fortunata. Molte donne non ci riescono se non quando è troppo tardi. Mai scambiare la luce di una volgare lampadina per la Luna.
Everythin will be- Délphine, fibromatosi uterina
Mi ricordo che prima della diagnosi ci fu una simpatica ginecologa che mi disse decisa: “sei incinta, congratulazioni” al che io risposi “congratulazioni anche a lei: ha appena fondato una nuova religione”. La mia compagna rise per tutto un pomeriggio, poi mi accompagnò a fare altri accertamenti. Saltò fuori che avevo un fibroma peduncolato di 12 cm. Quello fu il primo di tanti e, credetemi, avrei preferito fondare una nuova religione. Ma resisto. Ho tutto l’affetto di cui ho bisogno e le cicatrici delle laparoscopie scatenano nelle persone piccoli sorrisi d’amore che mi dicono che tutto andrà bene.
Equilibrium- Mélie, amputazione
Dopo l’incidente la mia vita è diventata deliziosamente instabile. La questione pratica non è uno scherzo. Pensate alla protesi. Togli, metti, togli, metti… e un giorno è larga, l’altro è stretta e l’invaso non va bene e mi irrita la pelle… e poi invece di camminare, ondeggio. Come un bambino appena nato, ho dovuto definire i miei nuovi confini, saggiare con il dolore i miei limiti. Di notte mi capitava di sentire prurito alla gamba che non c’è più. E poi c’è la gente. Ti guarda e pensa “Poverina, era così bella… guarda cosa le è capitato”. Ecco. Mi è capitato di sopravvivere. Mi è capitato di risollevarmi, di innamorarmi di me, di correre come il vento con la gamba hi-tech, di guidare una moto, di scoprirmi determinata… e ogni tanto, quando mi sollevo su una gamba, in equilibrio instabile, mi capita di sentirmi bella.
Day is done- Madeleine, osteosarcoma
È strano come funziona la memoria. Ricordo dei forti dolori alla gamba e poi c’è come un salto temporale, sapete, sottolineato da una piccola dissolvenza da film… e mi ritrovo distesa, con la bocca impastata dall’anestesia mentre chiedo a chiunque: “ce l’ho ancora?”. La mia gamba c’era ancora, ma avevano dovuto asportarmi l’anca inserendo al suo posto una protesi. Avevo 29 anni e un osteosarcoma. Il fatto di avere una gamba più alta dell’altra comporta una rivoluzione nella quotidianità. Sedersi per terra, usare i bagni pubblici… tutte cose piuttosto complicate, adesso. Ma la memoria è strana. Dopo l’inferno del busto, degli anni in riabilitazione, le lotte e le maledizioni per poggiare semplicemente il culo in una sedia… c’è una piccola dissolvenza, come quelle dei film, e mi ritrovo sdraiata in un parco, sotto il Sole, viva, di splendido umore, mentre sorrido al pensiero di non avere la più pallida idea di come farò a rimettermi in piedi.
Algebraic sum- Inés, mastectomia
È così che ci vedete? Nella vostra percezione matematica siamo donne a cui manca qualcosa. Un seno, una gamba, un ormone, il buon senso o la pelle vellutata. Ma noi siamo anche la somma del nostro coraggio e determinazione. Quando ci sottraggono qualcosa, raddoppiamo la voglia di vivere e di combattere… triplichiamo il bisogno di amare e la volontà di essere donne. Quando fate questo gioco algebrico con i vostri sguardi che soppesano… ricordate che noi saremo sempre la somma delle qualità di una persona, mai la sua differenza.
Listen to the sun- Federica, tentativo di suicidio
Si, è quello che sembra. Ho provato a togliermi la vita due anni fa. Ho fatto le cose per bene. Nessuno stupido taglio orizzontale sui polsi, ma una unica ferita lungo l’avambraccio. Mi salvò mio fratellino, che rientrò prima da calcio. Poi ci furono le sedute con lo psichiatra, il consultorio e il gruppo. Forse la parte più difficile fu il rientro a scuola. Ho dovuto risolvere molti problemi, soprattutto con me stessa. Fare pace con la mia vita, perdonarmi… ma sono ancora qui. Ultimamente ho preso a fare una cosa sciocca. Distendo le braccia al Sole e immagino di assimilare la vita proprio da quelle cicatrici… e sorrido tutte le volte.
Daniele a tal proposito aggiunge:
Se la cicatrice ti arriva per un tumore o un incidente, allora le persone si “protendono” verso di te, ti “riconoscono” e ti accolgono con calore… ma se sei stata una autolesionista o hai tentato di toglierti la vita, in qualche modo, non benefici dello stesso calore.
Ma nell’idea originaria della serie, l’intento è quello di raccontare storie di combattenti, di sopravvissute… e le cicatrici rappresentano le “ustioni” che si sono procurate attraversando il loro inferno personale. Ecco, per me non esiste un inferno “buono” o un inferno “cattivo”. Ci tenevo a dirlo.
Changing state- Arielle, scoliosi grave
È difficile essere presi sul serio quando tutto il tuo corpo pende peggio della Torre di Pisa. Qualcosa nello sguardo della gente, appena si dimentica di compatirti, dice di ripassare appena avrai un aspetto più “composto”. Dopo una vita così, finisci quasi per sentirti “pendere” anche l’anima. Ho lottato tanto per essere sottoposta ad una fusione spinale che aveva dei rischi pazzeschi e adesso, dopo ogni seduta di fisioterapia dolorosissima, sento tutto il mio essere ergersi diritto, a testa alta.
Awareness- Micaela, sindrome da autolesionismo ripetuto
Vorrei poter raccontare una storia migliore, ma la mia resta una storia di fragilità. Troppa pressione. Proprio non la reggevo. In certi momenti tagliarmi era l’unica cosa ad avere senso, qualcosa di cui avere il pieno controllo. Il momento peggiore fu guardare gli occhi di mia madre strabuzzare di orrore quando per caso scoprì quello che mi facevo alla coscia. Fu come se avessi tagliato anche lei… ed è per lei che sono diventata meno fragile.
A part of me- Aliénor, amputazione
La vita ha talento nel farti cambiare prospettiva. In un attimo ho perso una mano e il 70% di funzionalità dell’altra. Mi sono ritrovata a lottare e a maledirmi per ogni singolo bottone dei jeans… e alla fine ho deciso di usare soltanto quelli con la zip. Ad un certo punto, ho perso anche la voglia di vivere e di nutrirmi. Saltavo le sedute di fisioterapia e tutto nella mia vita sembrava essere assente come la mano che avevo perduto. Poi, una sera d’estate, qualcuno passò una intera ora con me senza accorgersi delle mie “mancanze” e facendomi sentire nuovamente viva e desiderabile. Uno sguardo amorevole è bastato a farmi cambiare ancora prospettiva. Quella giusta.
Accident- Alexie, incidente stradale
Conoscete la sindrome del “rallentare e guardare l’incidente”? È così che mi sento a volte. Un incidente a lato della strada. La gente rallenta quando mi vede, allunga il collo oltre il finestrino, cerca di darmi una lunga occhiata, di memorizzare i solchi sulle gambe zoppicanti, le piccole menomazioni o le cicatrici delle ustioni. Mi immagino là in mezzo, raccolta in me stessa, tra le lamiere contorte e le luci dei lampeggianti. Io sono l’incidente, sono il sollievo strisciante che si insinua in chi mi guarda. Ma sono anche il coraggio, l’orgoglio che sta per sollevarsi. Guardatemi pure. Io sono l’incidente. Io sono la sopravvissuta.
Abyss love me- Michelle, linfoma di Hodgkin
L’unica “cicatrice” che mi interessa davvero mostrare è la mia testa pelata. All’epoca della diagnosi avevo dei bellissimi e lunghi capelli castani. Ero una maniaca della cura dei capelli. Usavo uno shampoo delicato e nutriente, ma prima massaggiavo per più di un’ora il cuoio capelluto con la punta delle dita, applicando sui capelli leggermente umidi una maschera bio al burro di Karité o all’olio di palma. Niente era più importante dei miei capelli. Poi mi hanno presentato le sedute di chemio e il mondo ha cambiato prospettiva. Io sono cambiata. Ho guardato in faccia l’Abisso e gli ho ringhiato contro che la mia chioma sarebbe stata l’unica cosa che poteva prendersi. Così è stato. Regressione completa. I capelli hanno ripreso a crescere, ma io continuo a rasarli. Si fotta il burro di Karité. Sono bellissima così.
19 marzo- Emma, endometriosi
La prerogativa del dolore è quella di occupare tutto lo spazio disponibile. In una sola giornata è capace di privarti di tutto… è come se una creatura malvagia e pesante si posasse sopra il tuo ventre e ti impedisse persino di respirare. Allora combatti per il tuo spazio. Stringi i denti. Lo fai per te… e se non dovesse bastare, lo fai per amore del tuo uomo o per non vedere lo sguardo impotente e disperato di tua madre. Prendi una t-shirt gialla e scendi in strada a gridare la tua rabbia insieme alle tue sorelle… e sai che sarà comunque la tua giornata.
La foto si intitola “19 marzo” perché proprio quello è il giorno dedicato all’endometriosi.
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