"Scars of life": cartoline dall'inferno (e ritorno) di 26 donne

"Scars of life": cartoline dall'inferno (e ritorno) di 26 donne
illogico.it
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Una cicatrice per raccontarsi, per parlare di sé, più di quanto potrebbero fare le parole.

Le donne immortalate dal fotografo Daniele Deriu nel progetto “Scars of life” sono, come lui stesso le definisce (e come dargli torto?), “guerriere” moderne: giovani madri, compagne, figlie o sorelle, ciascuna con un proprio vissuto, percorsi tutti diversi disseminati, però, dagli stessi, dolorosi ostacoli, che più di una volta devono essere sembrati loro insormontabili, ma di cui adesso hanno scelto di mostrare i segni indelebili; con coraggio, con l’orgogliosa sfrontatezza di chi vuole gridare al mondo “Ce l’ho fatta”, queste donne normali, comuni, vincitrici, hanno accettato di mostrare le proprie cicatrici, testimoni di quel passato sofferto da cui sono riuscite a uscire, ma anche di un futuro tutto da vivere.

Proprio le cicatrici, nella visione dell’artista cagliaritano, rimandano alla pratica giapponese del “Kintsugi” (letteralmente riparare con l’oro), per cui le crepe di un vaso rotto, piuttosto che essere nascoste, vengono riempite con l’oro, cosicché l’oggetto risulti ancor più bello e prezioso. Nel caso delle donne di Daniele Deriu l’oro è la loro stessa determinazione, il desiderio fortissimo, pulsante, di vivere, di farcela… di uscirne. Ciascuna di loro ha accettato, senza imbarazzi, senza insensate vergogne, di posare davanti a un obiettivo con la propria cicatrice, simbolo di un dramma personale vissuto e superato: un tumore, delle menomazioni fisiche, abusi subiti o persino auto inflitti.

Del resto, la frase che presenta la gallery fotografica nel sito ufficiale del fotografo, illogico.it, è proprio il famoso aforisma di Kahil Gibran

Le anime più forti sono quelle temprate dalla sofferenza. I caratteri più solidi sono cosparsi di cicatrici

Proprio perché Daniele ha voluto, tramite il suo progetto, trasmettere un messaggio ben preciso, che non è, tuttavia, quello più banale che ci si potrebbe facilmente immaginare. Ce lo ha voluto spiegare direttamente lui, in questa intervista in cui abbiamo voluto sapere di più di “Scars of life“.

Intanto tengo a precisare subito che non intendo mandare messaggi ‘consolatori’, al contrario. Le donne, le ‘guerriere’ di questo progetto non sono belle ‘nonostante’ i segni ben visibili sulla loro carne… ma per vie traverse, lo sono proprio grazie a queste ‘imperfezioni’.

Insomma proprio come per il Kintsugi  questo progetto parte dall’idea che dall’imperfezione di una ferita possa nascere una forma ancora “più alta” di bellezza, esteriore e interiore.

Si, non ci si limita a ‘riparare’, ma si evidenziano le crepe, le fratture… le impreziosiscono aggiungendo valore all’oggetto. Questo, in due parole, è il senso di ‘Scars of life’: l’oro, simbolicamente presente anche per via della mia ‘firma cromatica’, è il coraggio, la voglia di riscatto, il fatto di non aver mai mollato. L’oro impreziosisce le storie sulla pelle, le rende belle… le rende uniche.

Il progetto nasce inizialmente nel 2012. Cosa le ha suggerito lo spunto per creare la serie “Scars of life”?

Forse è nato per caso, come tanti altri… ma credo sia stata la parola ‘vergogna’ ad accendere il ‘relè’ della mia riflessione. Era l’estate del 2011 e mi trovavo in spiaggia, osservavo un gruppo di amiche in circolo. Una in particolare attirava la mia attenzione: era difficile non notarla perché era l’unica di tutta la spiaggia a indossare un pareo rosso. Seppi solo più tardi che quella ragazza soffriva di endometriosi e si vergognava delle sue cicatrici. Pensava che doveva esserci qualcosa di sbagliato nella società se qualcuno si sentiva in dovere di nascondere le sue cicatrici, le ferite delle sue battaglie personali. Quella stessa ragazza, un anno dopo, fu la prima modella del mio progetto.

Dopo una prima fase, però, lei ha deciso di accantonare il progetto, per ben due anni, e “Scars of life” venne assorbito quasi completamente dalla mostra londinese “Dystopia”. Cosa l’ha indotta ad accantonarlo e successivamente l’ha spinta a riprenderlo?

Non amo definire ciò che faccio ‘fotografia sociale’, ma di certo ha molto a che fare con l’empatia. Ammetto che a un certo punto del progetto mi sono sentito un po’ ‘inadeguato’ a raccontare le storie di queste donne magnifiche. Ho temuto di non riuscire a trasmettere in uno scatto la sintesi della loro incredibile forza emotiva e morale… di non riuscire a mostrarne appieno la bellezza. Poi, molto semplicemente, mi sono detto che non potevo essere proprio io quello che non mostrava abbastanza coraggio in questo progetto.

Il risultato è una splendida gallery di 26 donne, il cui messaggio arriva forte e chiaro, come Daniele stesso dice: dall’inferno si può tornare.