Troppe volte le vittime di violenze sessuali vengono ritenute in qualche modo responsabili della violenza che subiscono, per colpa dell’abito o della gonna che stavano indossando. Sì, perché il più delle volte è così che vengono identificate nell’immaginario comune: ragazze succinte con un pantaloncino troppo corto, una scollatura troppo profonda, un rossetto troppo accentuato. Ma la verità che si cela dietro questi tristi e barbari atti non potrebbe essere più lontana dalla realtà. Troppo spesso si immagina una vittima di stupro con degli indumenti sexy, non in jeans e maglietta oppure in tuta.
A far riflettere su questo luogo comune troppo diffuso (e sbagliato) è la mostra What Were You Wearing? (Cosa stavi indossando?), ospitata nell’autunno 2017 dall’Università del Kansas, negli Stati Uniti. Un progetto nato molto tempo prima, nel 2013, grazie alla mente di Jen Brockman, direttore del Centro per la prevenzione e formazione sessuale del Kansas, e dalla dottoressa Mary A. Wyandt-Hiebert, sovraintendente di tutte le iniziative di programmazione presso il centro di educazione contro gli stupri dell’Università dell’Arkansas. Quello della mostra è un modo per sensibilizzare la triste piaga delle violenze sessuali e combattere il senso di colpa della vittima che ha subito l’abuso.
I partecipanti possono entrare nella galleria e vedersi “riflessi” non solo dentro gli abiti, ma anche nelle storie. Essere in grado di far vivere ai visitatori il momento in cui si immedesimano a tal punto da dire: “Voglio avere questo abito appeso nel mio armadio” o “Ho indossato questo vestito questa settimana”. Così facendo possiamo sperare di sconfiggere il falso mito che se solo avessimo evitato quel vestito allora non avremmo mai subito del male o che, in qualche modo, possiamo eliminare la violenza sessuale semplicemente cambiando i nostri vestiti.
Ha annunciato Jen Brockman ad Huffington Post, motivando la sua scelta per la creazione di una mostra del genere. Nel corso di questi quattro anni, la mostra What Were You Wearing? è stata inoltre ospitata da diverse altre università, tra le quali l’Università di Iowa e l’Università di Arkansas. Composta da ben 40 tristi esperienze, la mostra ha visto presenti nell’ateneo del Kansas 18 di esse. Gli studenti universitari hanno condiviso le loro storie con interviste, forum totalmente anonimi, riviste tematiche e attraverso piattaforme on-line; inoltre, ogni indumento è stato donato dagli studenti stessi per riprodurre i vari outfit indossati dalle vittime durante il momento dell’aggressione. Jeans, magliette stampate, maglie sportive, vestiti estivi per bambine: gli abiti esposti sono innumerevoli e ognuno diverso dall’altro se non il fatto che tutti, non uno escluso, risultano normali ai nostri occhi. Abiti da indossare per andare a lavoro o uscire normalmente di giorno. Anche se si trattasse di gonne eccessivamente corte o abiti succinti comunque questi non rappresenterebbero una giustificazione per una violenza, nulla giustifica un atto così animalesco e devastante per una donna .
Quando i superstiti di una violenza confessano, quello che sentiamo è spesso una conferma perché ci diranno: “Questo era il mio abito. Quello che ora è appeso a questo muro è ciò che indossavo” oppure “Questa è la mia storia. Quella è identica a quella che è capitata a me”. Non è l’abbigliamento che provoca una violenza sessuale, è la persona che fa del male. Essere in grado di trovare pace per i superstiti e creare un momento di consapevolezza per la comunità è il vero obiettivo del progetto.
Ha aggiunto Jen Brockman, annunciando inoltre i numerosi feedback positivi ricevuti per la mostra ideata. Un modo per mostrare al mondo che non è mai colpa della vittime, non è mai colpa dei vestiti che indossano, solo della scioccante brutalità umana.
Un costume da bagno
Un costume da bagno. Siamo andati in canoa per tutto il giorno. Mi sono davvero divertita. Poi sono entrati nella mia tenda quando mi stavo cambiando.
Una maglia sportiva
La mia maglietta gialla preferita, ma non ricordo che pantaloni stessi indossando. Ricordo solo che mi sentivo davvero confuso e volevo solo andare via dalla stanza di mio fratello per tornare a guardare i cartoni animati in tv.
Jeans e camicia
Dei jeans khaki e una camicia rossa. Dovevo fare una presentazione quel giorno nella mia classe di comunicazione. Mi presero i vestiti in ospedale durante l’esame per stabilire lo stupro. Non so cosa sia davvero successo a quegli abiti.
Il vestito di una bambina
Un vestitino da giorno. Mesi dopo, mia madre si mise davanti al mio armadio e si lamentò del fatto che non avrei mai più indossato vestiti del genere. Avevo sei anni.
Tre differenti outfit
Una storia di molestie divisa in tre diverse fasce d’età:
(1) Jeans e maglietta, avevo 18 anni.
(2) Un vestito da bambina. Me lo diede il padre di mia cugina, avevo 5 anni.
(3) Un abito – pensavo che sarei stata al sicuro vicino a una donna ma mi violentò anche lei.
Una maglietta nera
Sono mancata dal lavoro qualche giorno dopo l’accaduto. Quando lo dissi alla mi adirettrice, lei mi domandò proprio questa domanda (ndr. “Cosa stavi indossando?”). Le disse: “Una maglietta e dei pantaloni, cosa indossi tu a una partita di basket?”. Me ne andai e non tornai più.
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